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Estudio de Selena Simonatti

Notas de un viajero: nella «geografía ansiosa» di José Manuel Lucía Megías

por

Selena Simonatti

Artifara, 8 (2008)

 

Nunca hubo fotos de los instantes claves,

del momento justo del amor,

del preciso paisaje de las obsesiones.

  1. J.

Addentrandoci nei paesaggi e nelle ossessioni che delineano i versi di José Manuel Lucía, ci accingiamo a percorre spazi distanti e differenti, avanzando per luoghi e geometrie che fanno del viaggio, fin dagli esordi del Libro de horas (Madrid, Calambur, 2000), un vettore determinante della sua scrittura. Nella raccolta appena citata scopriamo che è l’amore il più vistoso dei paesaggi e la più tenace delle ossessioni: le ore di una giornata qualunque, materializzate in un unico pensiero, percorrono i versi di una raccolta che si apre e si chiude nel segno di una irrimediabile perdita. L’amore lontano impregna il tempo, riversandosi sulla disposizione ossessiva dei tracciati quotidiani, dove l’adesso è interminabile ricerca, fatuo accanimento, angosciosa distanza. Tutto il libro, di fatto, è un’avversativa. Le sembianze della distanza smembrano la percezione della scenografia urbana dalla sua reale concretezza: il reticolato delle strade e le simmetrie della pioggia, come quello degli impegni ufficiali e delle abitudini ‘comandate’, sono il circuito perverso sul quale si avvia l’uomo sin tierra che apre il canto tormentato delle ore: «sin tierra/ mis pies se me presentan en la madrugada ridículos». Lo specchio impietoso dell’aurora invita al mascheramento. Sulla soglia del mondo, senza completare la sua metamorfosi, è costretto ad imboccare la strada della realtà: «mitad barro y mitad carne/ monstruo que se lanza a una puerta que se abre en la acera,/entro en mi coche y sonrío». Il risveglio è osservato come il tempo del riconoscimento e del recupero di sé, forse in linea con i primi versi delle Horae Canonicae di Auden, un libro che, in virtù del titolo, invita a una lettura intertestuale: «without a name or history I wake/ between my body and the day» (Prime).

Tra il giorno e il proprio corpo si aprono le possibilità del linguaggio che, nel nostro caso, sono rimaste intrappolate in una litania dell’assenza, e solo ad essa si prestano le ridondanze, le allitterazioni, le anafore che determinano un andamento catalogico ossessivo, in cui il virtuosismo verbale tende forzosamente all’esasperazione. Si snoda così l’avventura di un martirio quotidiano, come scandiscono profeticamente le parole del tango cantato da Nacha Guevara: «yo sé que no vendrás», certezza con cui si chiude il tempo ciclico di un desiderio destinato alla negazione e al silenzio. Un silenzio che, allo scadere del giorno, ci convoca dentro l’esperienza di un distacco irreversibile e luttuoso: «te fuiste en silencio, demasiado pronto».

Se l’Auden delle Horae canonicae, com’è stato notato (cfr. W. H. Auden, Horae Canonicae, trad. di Aurora Ciliberti e note di Maria Vailati, Milano, SE, 2000), rivendica il possesso del tempo e la volontà di ‘agirlo’, per Lucía Megías le ore dislocate sulla mappa lineare del giorno e disperse in quella caotica del desiderio sono l’aggressione programmatica di un tempo invertebrato e impersonale al quale il sentimento, tuttavia, si rifiuta di soccombere. La sfera del senso, progressivamente oscurata dalle ‘sensazioni’ della realtà, sopravvive nel brulicare scomposto di un áspero mundo palese l’intertestualità con Ángel González che tradisce un’arrangiata (e ormai logora) costruzione scenografica: «¿Y si nuestro áspero mundo no fuera más que un decorado de/provincias,/una anticuada,/raída,/polvorienta escenografía olvidada de provincias?». L’allestimento scenico della realtà ci invita a leggere il tempo come «la cadencia de una mentira», consumata ogni giorno con banalità e senza rancore: Todos ustedes parecen felices..., ricordano più di una volta i versi ancora presi in prestito da González. Alla fine della giornata, «una vez más/el atardecer diario cierra el telón de un día reciclable»; il palinsesto della realtà si chiude e il tempo della notte riduce la sua irruzione all’assalto indiscreto del televisore, popolato di immagini ancora troppo ingombranti che si distillano in pianto: «y me dan ganas de llorar imágenes». Sul varco della notte, si può tornare a se stessi, mentre le ore tacciono, ammutolite: «me faltan palabras y me sobra sangre».

Nel segno dell’amore si apre anche Acróstico (Madrid, Sial Ediciones, 2005), una raccolta che si stringe intorno alla parola e agli usi del linguaggio, per poi rivelarne limitazioni e insufficienze: «así me encontraba yo,/sin palabras». E sin palabras si avvia il testo sulla strada delle parole. Il mondo frantumato in vocali, monosillabi e congiunzioni è osservato come una gigantesca parola muta. Nell’aspra selva del dizionario, i vocaboli si inseguono tracciando un cammino accidentato di suoni minacciosi e irriverenti (A vueltas de tu cuerpo). E il disorientamento è tale da ribaltare gli esiti della Poetica N. 4 di Ángel González: «Poesía eres tú,/dijo un poeta/y esa vez era cierto/mirando al Diccionario de la Lengua». Ma l’ironia si sgretola fino scomparire: Lucía Megías è tornato a Bécquer attraverso il disincanto di González. Assaltato da parole che hanno perduto la propria definizione, il ‘viaggio nel dizionario’ è quello intorno a un un ‘corpo’ assente per mezzo di un corpus in-significante. «Cuando un nombre no nombra/ y se vacía,/ desvanece también, destruye, mata/ la realidad que intenta su designio», annota González in Palabra muerta, realidad perdida da leggere, nel nostro caso, facendo un passo indietro: l’insensatezza del nome è determinata dall’assenza della realtà che designa.

In Canciones y otros vasos de whisky (Madrid, Sial Ediciones, 2006), i versi riuniti nella sezione Luna de agosto spezzano l’andamento narrativo consueto, instaurando una pausa che conferisce alla scrittura modulazioni più liriche. Il tempo tedioso di un agosto sferzato dalla pioggia, dentro il quale nasce e muore l’amore, ci accompagna in una stagione intensa e brevissima che si consuma nella desolazione urbana della città deserta. La «grandiosa luna de agosto» è una lente attraverso la quale osservare l’agonia di un tempo destinato a spegnersi dopo aver impregnato tutto d’assoluto. È ancora Madrid, trasfigurata nel deserto d’agosto, la geometria psico-urbana di questa raccolta.

Anche Cuaderno de bitácora (Madrid, Sial Ediciones, 2007) si apre con un testo in cui irrompe una pacatezza inconsueta. Le parole si piegano docili al senso di un’arsura immacolata e fatale:

 

Mi cama en Roma es un desierto,

silenciosa como un desierto,

huidiza como un espejismo en el desierto.

En vez de sábanas, en mi cama en Roma

Hay dos nubes que amenazan tormenta,

dos mantas de truenos y relámpagos:

pero en mi cama romana nunca llueve,

se diría que es una cama de sequía,

una cama que de estar en un museo

sería pieza central de porcelana.

 

Ma Roma è soltanto la prima geografia. Le successive delineano un percorso che riunisce in una topografia familiare Salamanca, Helsinki, Buenos Aires, Ginevra, il Messico e la Cina: microstorie di un atlante sentimentale fotografato con le parole. La sovrapposizione tra camino e caminante affiora con insistenza, nella misura in cui il confine tra il luogo visitato e lo sguardo di chi lo percorre si fa più impreciso: «me siento trasparente en medio de la carretera:/puro asfalto, puro polvo, puro andén» (Viajes a Salamanca). Il paesaggio che si staglia «fuera del mundo de las palabras» è una composizione di immagini interiori nitide, a volte sfocate, illusoriamente afferrabili. Sono stampe che prendono vita da pochi elementi paesaggistici, a volte soltanto da qualche rievocazione sonora o emotiva (Dos poemas desde los valles Calchaquíes e Pregón de Torreiglesias); sono bozzetti che si aprono con tratti rapidi ed essenziali, quasi sentenziosi: «Dormidas que no muertas, están las ruinas de Roma» (Foro romano), «Hay vida en el cementerio de Plainpalais de Ginebra» (Buenos Aires-Ginebra), «Cae un gota de lluvia, /sonríe la Pachamama/ y lo hace con sonrisas/ azules, de azul quebrada» (Dos poemas desde los valles Calchaquíes), «Una ráfaga de viento/ recorre Beirut./Una ráfaga de viento ensangrentado» (Beirut); sono istantanee che profilano, al margine dei colori e delle forme, le trame e le impressioni della miseria e dell’iniquità: «tengo la ciudad de México a mis pies:/ tablero abierto para jugar a descubrir infamias» (Ciudad de México, I. Hotel Diplomático).

Cuaderno de bitácora è soprattutto una navigazione nella memoria, un’immersione temporale del corpo che ricorda. I paesaggi del Diario de un viaje a la tierra del dragón (Madrid, Ollero&Ramos, 2004), riproposti con qualche aggiustamento nella penultima sezione del libro, ci conducono con più forza e sistematicità dentro una cadenza diaristica. Constatiamo che è con sempre più consapevolezza che si propone il viaggio come un modo necessario e privilegiato di concepire e realizzare la scrittura poetica. Dal Libro de horas al Cuaderno de Bitácora è il tempo del viaggio a strutturare la parola in versi, e i versi a strutturarsi in luoghi significanti. Il gusto per l’esostismo e per il particolare curioso ha un’importanza del tutto marginale: «no el ansia de color exótico, ni el afán de ‘necesarias’ novedades», come avverte la nota che precede il Diario de un poeta recién casado (1917), di cui si fa eco la Canción para Azul che chiude il Cuaderno di Lucía Megías, dove scorgiamo un richiamo al valore cromatico del mare immensa geografia acquatica che arriva ad identificarsi col viaggio e allo smarrimento ‘linguistico’ causato dal nuovo continente, metaforizzato in New sky, il ‘cielo nuovo senza nomi e senza storia’. Azul, materializzato nella «ciudad cervantina de la Argentina», crocevia di impressioni e reminiscenze letterarie tra Don Quijote e Rubén Darío è il colore inatteso della scoperta: «¿Y que era el azul antes de conocerte, Azul? [...] ¿Y qué es el azul ahora que te conozco, Azul? [...] Y te canto, Azul, desde la atalaya de tus nombramientos».

Anche le radici e le ali di Cuaderno de Bitácora «vuelan» e «arraigan» dentro colui che annota le geografie ‘camminate’ della propria storia. In questo senso, credo sia possibile parlare di una ‘poesia del ri-conoscimento’: un luogo verbale dentro cui perseguire accanitamante il proprio nome, con l’ansia di specchiarsi nell’unica remota salvezza «sin maquillaje ni máscaras» della propria verità. Tutto il resto, intorno, è «continua red de expresiones binarias», vasto acrostico illeggibile. La figura retorica si offre, così, come una chiave d’accesso secondaria, connessa a una ‘poetica del viaggio’ e a una ‘scrittura dell’osservazione’: la comprensione del mondo si cela nei segni in cui è possibile scorgere anche il proprio volto. A quanto pare, è una poética a la que intenta aplicarse anche il “caminante” José Manuel che, con la sua voce, traccia il perimetro di un’esperienza mai risolutiva, in cui rimane aperta la tensione tra la realtà nominata e il ricordo di averla posseduta.